Matteo Pedersoli Balìc
Sono nato a Angone il 24 settembre del 1928, ero il primo di dieci fratelli. Mio padre lavorava all’Ilva, dove nel 1944 ho preso il posto anch’io; nel 1956 sono passato alla Dalmine di Costa Volpino. Ho giocato a “bala” per quasi cinquant’anni, tutte le feste, quando non pioveva o non era inverno. Ho girato tutti i paesi della Valle dove si giocava, ma anche parecchio in Val Trompia, in Franciacorta e nei paesi della riviera del Lago d’Iseo. In Valle Camonica c’è sempre stata una grande passione per questo sport: da ragazzo restavo ammirato a guardare i grandi giocatori di Angone: il battitore Cristini Serafino classe 1919, mio zio Pietro del 1906 e Gabossi Francesco che mi pare fosse del ’23, che era un bravo “medaről”. Ho imparato bene a fare il battitore, dicevano che ero bravo e parecchie squadre anche della “bassa”, quando ci tenevano a vincere, venivano a cercarmi. Mi ricordo che una volta, con la creèla posta davanti all’Osteria Cristini, sono riuscito a mandare la palla sul poggiolo della casa di Covel: i vecchi dissero che mai nessuno c’era riuscito. Alla fine degli anni ’50 ho fatto il battitore anche per la squadra di Marone: avevo tanta passione che andavo e tornavo in bicicletta.
In questo gioco il livello del battitore è fondamentale. L’importante nella battuta è la rincorsa e arrivare alla creèla col passo giusto; il rimbalzo della palla deve essere lungo circa due metri. Bisogna giungere sulla palla a tempo giusto, con sincronismo preciso colpire la palla quando questa scende, con la massima velocità del corpo, cercando di impattarla nella parte alta della mano, alla base del pollice, e possibilmente accompagnarla facendola scorrere sul palmo e le dita, in modo da darle forza ma anche la direzione voluta. Per fare tutto questo bisogna avere energia, carica nervosa e concentrazione mentale. Io ero anche ribattitore. Non sempre un buon battitore è necessariamente anche un valido ribattitore, in quanto sono tecniche diverse: il battitore colpisce sottomano mentre il ribattitore colpisce prevalentemente sopra mano; ancora diverse sono le qualità del “medaről” che deve essere sopratutto svelto e pronto di riflessi. Per diventare un buon giocatore ed essere rispettati bisogna anche essere un po’ seri: mettere in piedi questioni e discussioni inutili non giova, perché, prima o poi, la gente ti pesa e perdi credibilità.
Di seguito è possibile leggere le testimonianze di alcuni giocatori che calcarono le piazze della Valcamonica attorno alla metà del Novecento, quando, dopo i giorni luttuosi e tristi della guerra, il gioco di bala in piazza rivisse la sua ultima stagione aurea, come risposta quasi necessitata al risorgente bisogno di convivialità della popolazione.
In molti di essi si coglie nitidamente l’orgoglio e la commozione di sentirsi forse gli ultimi testimoni di un elemento intimo e vero di una lunga tradizione popolare. Le virtù, passate di generazione in generazione, sono quelle d’esser anzitutto vigorosi nel gioco, risoluti nel perseguire la vittoria, accorti nella tattica, tenaci nelle dispute e, specialmente, possedere un afflato gioviale, tanto che il segmento temporale riservato allo svago rappresenta e riassume, nel contempo, una cifra di ragioni etiche in cui l’intera collettività tende a riconoscersi.
Io mi spostavo con la mia moto, una Guzzi 250. Dicono che non ci sarà mai più un battitore come me a Angone, ma io spero che questo non sia vero, perché oso pensare che questo magnifico gioco vivrà anche in futuro. I prossimi che compio sono 84 anni, sono contento di aver giocato, di aver fatto tante amicizie, di aver onorato nello sport il mio caro paese di Angone e, quando ho potuto, la Valle Camonica. Ho solo un po’ di “rughino” perché forse, per correre dietro alla bala, ho trascurato la mia famiglia, ma di questo ho già chiesto scusa a mia moglie e ai miei figli…
Matteo Pedersoli Balìc